Kintsugi, la filosofia per riparare la tua vita
La filosofia kintsugi ha mosso i suoi primi passi centinaia di anni fa in Giappone, dove nacque come tecnica di restaurazione che mirava a non nascondere le crepe degli oggetti, ma a esaltarle con l’oro. Allo stesso modo, i nostri fallimenti, la sofferenza, le delusioni e ciò che ha segnato il nostro cammino su questo mondo, non dovrebbero essere nascosti o rinnegati, ma accettati e accolti. Solo così potremo diventare delle persone complete, meravigliosamente imperfette.
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Se hai mai letto un libro o ascoltato un podcast di crescita personale, probabilmente la filosofia kintsugi (o “kintsukuroi“) non sarà un concetto nuovo per te: questa filosofia è nata centinaia di anni fa in Giappone, e può essere considerata un modo per vedere la vita da un punto di vista più “umano”, accettandola in ogni suo aspetto, con tutte le sue imperfezioni.
Probabilmente il nome in sé, kintsugi, non ti dirà niente, ma forse ti sarà già capitato di ammirare delle vecchie tazze di ceramica, vasi o altri oggetti caratterizzati da splendide venature del colore dell’oro.
Cosa c’entrano tazze e vasi con la filosofia kintsugi? Devi sapere che la parola Kintsugi (si pronuncia “chinzughi”) vuol dire letteralmente “riparare con l’oro”.
Che cos’è l’arte del Kintsugi?
Sebbene sia noto come la soluzione per cambiare mindset e migliorare la propria vita, in realtà il kintsugi giapponese ha mosso i suoi primi passi proprio nel campo del restauro.
Grazie alle riparazioni eseguite mediante metalli preziosi e oro, tazze di ceramica o altri oggetti rotti possono assumere un aspetto nuovo e un valore ancor più prezioso.
La fragilità diventa così un nuovo punto di forza da esaltare, e non più da nascondere.
Come l’oro lega i frammenti di un oggetto andato in frantumi, anche le parti spezzate di noi possono essere riparate, ricongiunte e portate in luce. Con la sua estrema semplicità, questa filosofia ci insegna a celebrare i nostri difetti e le nostre imperfezioni, senza rinnegare ciò che ci ha fatto soffrire, perché è anche ciò che ci ha fatto crescere e ci ha resi chi siamo oggi.
Come nasce il Kintsugi?
Ma quando e dove nasce il Kintsugi? La nascita di questa filosofia è avvenuta centinaia di anni fa, quando il terzo Shogun Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408) ruppe per sbaglio la sua tazza da tè preferita. Si trattava di un pezzo unico che non poteva essere sostituito, quindi il regnante decise di inviare la tazza in Cina, per farla riparare.
Quando riebbe in mano la sua tazza, lo Shogun rimase molto contrariato: l’oggetto era stato riparato con delle graffette metalliche, il che sembrava essere poco elegante e decisamente poco funzionale.
Lo Shogun chiese quindi ai suoi artigiani di riparare la tazza in modo più appropriato, senza nascondere le crepe. Gli artigiani ripararono la tazza utilizzando della polvere d’oro, così da esaltarne i frammenti.
Fu così che nacque l’arte del kintsugi.
Kintsugi: significato psicologico
La filosofia kintsugi rappresenta un concetto molto importante anche in campo psicologico, oltre che metaforico e simbolico.
Chi si rivolge a uno psicologo, infatti, intraprende un percorso che porterà alla creazione di un mondo più affine a sé, ricostruisce, se così vogliamo dire, le parti frammentate del proprio io interiore, impara a non nascondere le sofferenze, ma a osservarle, comprenderle e accettarle come parte del proprio percorso di vita e di crescita.
Si tratta di un processo che richiede coraggio e impegno, un percorso che, di volta in volta, ti permetterà di vedere le tue ferite non più come qualcosa da nascondere ma come qualcosa da far brillare.
Così il kintsugi ripara le ferite dell’anima
Ben presto, l’arte della riparazione con l’oro divenne una metafora della vita, una preziosa lezione che ci esorta ad abbracciare i passi falsi, gli errori commessi, i fallimenti, le delusioni, e a trasformarli nei nostri punti di forza, e mostrarli con orgoglio.
Da un punto di vista simbolico, il kintsugi rappresenta un insegnamento prezioso: spesso tendiamo a gettar via gli oggetti rotti e a rimpiazzarli senza pensarci due volte, senza neanche cercare di ripararli. Allo stesso modo, quando commettiamo degli errori, quando falliamo in qualcosa, o più semplicemente quando non soddisfiamo le nostre aspettative, tendiamo a condannarci, proviamo a nascondere con vergogna, senso di colpa o persino ansia e imbarazzo quelli che consideriamo i nostri punti deboli.
Per dimenticarci delle nostre imperfezioni, tendiamo a distrarci con tv, social media, cibo spazzatura e mille altre cose. Tutto, pur di non trovarci faccia a faccia con le nostre debolezze. Eppure, è proprio accettando l’idea di non essere perfetti che possiamo iniziare davvero a vivere.
Elaborare ciò che ci ha fatto soffrire, mettere in risalto le nostre ferite e debolezze (ricoprendole, metaforicamente, con polvere d’oro), dare loro la giusta attenzione accettandole come parte del nostro percorso: solo così potremo diventare delle persone davvero complete, intere e orgogliosamente imperfette.
Fonti