Spondilite anchilosante, diagnosi dopo 3 anni per 6 pazienti su 10
Spondilite anchilosante: la diagnosi arriva dopo almeno 3 anni per 6 pazienti su 10, e questo rende ancor più difficile il trattamento
Per le persone con spondilite anchilosante, la diagnosi arriva in genere dopo almeno 3 anni dalla prima manifestazione dei sintomi della malattia. Lo ha reso noto l’Associazione Nazionale Malati Reumatici (Anmar), che ha condotto un sondaggio su 100 pazienti in collaborazione con i membri dell’Osservatorio Capire.
Dal sondaggio è emerso che 6 pazienti su 10 (il 60%) devono attendere mediamente 3 anni prima di ottenere una diagnosi di spondilite anchilosante.
Ciò non fa che rendere più difficile la vita quotidiana dei pazienti, che si affidano a internet per trovare sollievo e utili informazioni in merito a questa malattia infiammatoria. Si stima che solo il 29% dei malati riesca a godere di una buona qualità di vita. L’80% fa invece ricorso ai siti di medicina per ricevere informazioni e sostegno.
Diagnosi spondilite anchilosante: le conseguenze dei ritardi
Solo nel nostro Paese sono più di 40.000 le persone con spondilite anchilosante. Questa malattia colpisce perlopiù gli uomini al di sopra dei 25 anni di età, e causa un graduale irrigidimento della colonna vertebrale.
Si manifesta con forti dolori e può rendere impossibile flettere la colonna vertebrale,
spiega Mauro Galeazzi, presidente emerito della Società Italiana di Reumatologia. Il paziente può tenere sotto controllo la malattia grazie a dei farmaci biologici, ma questi fanno effetto solo se somministrati in fase iniziale. Appare dunque chiaro quanto sia dannoso il grande ritardo con cui viene eseguita la diagnosi.
Le visite “necessarie” per diagnosticare la malattia sono generalmente 3 o 4, ed i lunghi tempi di attesa fra l’una e l’altra non fanno che complicare una situazione già molto complessa.
Per affrontare la questione, garantire la miglior vita possibile per i pazienti e prevenire il rischio di disabilità, è dunque molto importante aprire la strada a trattamenti terapeutici tempestivi. A giocare un ruolo fondamentale, in tal senso, sarà anche il medico di famiglia. A questa figura si rivolgono infatti il 45% dei pazienti dopo la prima manifestazione dei sintomi.
via | Ansa
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